Un Maestro si confessa, svelando i segreti che lo hanno reso grande, ma anche le perplessità nei confronti di un calcio che pare non abbia imparato la lezione da Lui impartita. Arrigo Sacchi racconta e si racconta, attraverso le pagine di un libro, dal titolo “Calcio totale”, edito da Mondadori, una biografia che narra i suoi passi dalla periferia romagnola ai vertici del calcio mondiale.
Presente al Salone del Libro di Torino per far conoscere il volume in questione, iniziativa compresa nell’evento “Torino 2015 – Capitale europea dello sport”, Sacchi descrive le differenze tra il suo calcio e quello visto dagli altri, le innovazioni che lui apportò una volta giunto al Milan da sconosciuto ‘Signor Nessuno’. Ad affiancarlo sul palco il giornalista del Corriere della Sera Tommaso Pellizzari.
Questo il pensiero espresso da Sacchi nel corso della conferenza: “La Juventus ha compiuto una grande impresa raggiungendo la finale di Champions, cosa che non accadeva da quando l’Inter alzò la coppa; il problema è che in quell’Inter non c’erano calciatori italiani. Questo accade perché in Italia, pur di vincere, si venderebbe anche l’anima al diavolo. La Juventus invece rappresenta il classico esempio di squadra che sta raccogliendo in questi anni i frutti di chi ha seminato molto bene.
Io ho allenato per pochi anni in serie A, ma ho ottenuto grandi successi, regalando al pubblico fortissime emozioni. La mia carriera è stata difficile, e per questo mi ritengo fortunato: ho iniziato ad allenare in 2^ Categoria, salendo gradualmente fino alla serie A, con la soddisfazione di non essere mai stato esonerato. Ho sempre cercato di infondere due elementi fondamentali alle mie squadre: il concetto di collettività innanzitutto, perché si gioca in undici, e l’impostazione offensiva del gioco, dato che i padri fondatori di questo sport lo avevano concepito proprio come gioco d’attacco. Il mio obiettivo è sempre stato quello di migliorare i singoli attraverso il gioco di squadra, esattamente il contrario di quello che avveniva in Italia all’epoca. Un’altra caratteristica del calcio italiano è che si insegna a giocare con i piedi; in realtà bisognerebbe insegnare a giocare con il cervello. In campo la differenza la fa l’intelletto, che ti porta a fare le scelte giuste al momento giusto. Anche calciatori tecnicamente poco dotati possono diventare elementi fondamentali di ogni squadra se sanno usare l’intelligenza in maniera corretta. Il gesto tecnico è un mezzo che il calciatore dovrebbe utilizzare per ottenere come fine ultimo la scelta giusta sul campo.
Quando si affronta un calciatore tecnicamente eccelso che può fare la differenza, non si marca con l’uomo, bensì con un sistema di gioco adatto. Da noi è molto difficile riuscire a lavorare in questo senso, perché si vede il calcio solo da un punto di vista agonistico, conta solo vincere anche senza meritarlo, anche senza dare spettacolo. Conta la vittoria, anche se immeritata.
Il bravo allenatore è colui che apporta correzioni in settimana, durante gli allenamenti, simulando ciò che avviene realmente in una partita; solo così puoi preparare in maniera adeguata la squadra. Il calcio non può prescindere dalla velocità e dall’avversario; se ti alleni senza tener conto dell’avversario fai un allenamento controproducente. In Olanda ho visto ragazzini di dieci o undici anni allenarsi con un intenso gioco di squadra, fatto con un sincronismo eccezionale; logico che giocando cinque o sei anni allo stesso modo, riescano ad acquisire una tecnica straordinaria inerente al gioco collettivo. In Italia abbiamo ottimi allenatori che spesso non possono esprimere il loro meglio, perché qui si ha fretta di vincere, di ottenere i risultati, non si tiene conto del gran lavoro e delle idee che stanno alla base dei successi.
Un giorno Marco Van Basten mi disse che lavoravamo troppo in allenamento e che quindi non si divertiva. Gli risposi che il suo divertimento doveva derivare dalla gioia che mostrava il pubblico nel vederci giocare. Giunsi al Milan da perfetto sconosciuto, ma ho avuto la fortuna di trovare una società che mi ha lasciato lavorare senza pressioni. Ciò che chiesi fu di prendere calciatori che fossero prima uomini dal grande cuore e poi campioni.
Quando a inizio anni ’70 andai a lavorare negli Stati Uniti, se mi avessero pronosticato che vent’anni dopo sarei andato a giocarmi lì una finale mondiale alla guida della Nazionale, con alle spalle tanti successi importanti, ma sottolineandomi che la finale l’avrei persa, ebbene io avrei messo comunque la firma. Questo perché si deve anche saper perdere. La cultura della sconfitta permette di realizzarsi anche attraverso il lavoro e l’impegno, prima ancora che con la vittoria. In campo tutti sbagliano, soprattutto gli allenatori. Non esistono allenatori che non sbagliano. Quando allenavo avevo come obiettivo quello di commettere meno errori del mio avversario.”
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