C’era una volta la gente di Reggio, identificata in maniera viscerale, autentica nella propria squadra.
D’accordo: la novità, la scoperta, poi appagamento e delusione. Amaro ma comprensibile, per certi versi. “C’era più coinvolgimento, rispetto ad oggi, quando gli amaranto annaspavano nella polvere della C“, chi lo dice non teme smentita. E deve far riflettere. Allora, infatti, la Reggina era sentita come qualcosa di proprio: davvero, in tutto e per tutto, l’espressione sul panorama nazionale di questa città.
La Reggina, non è un luogo comune, incarnava Reggio in ogni sua più piccola sfaccettatura. Dei propri calciatori la città ostentava la conoscenza di presunti pregi e difetti, tecnici e perfino umani. Argomentava sulla Reggina, si disperava e godeva per la Reggina. Supponeva, dibatteva, respirava la sua squadra.
Adesso, i calciatori sono corpi avulsi dal territorio. Fantasmi che scivolano sul tessuto sociale senza lasciare traccia, come uno schizzo d’acqua su un marmo candido. Reggio non li conosce, se non professionalmente e come tali li vive: professionisti che indossano una maglia assicurando lo “spettacolo” della domenica. E niente più. La società, l’ambiente amaranto terribilmente distanti dalla propria gente, dall’alto d’una torre d’avorio, separati da sfiducia e diffidenza reciproche.
Viene svilita così quella componente che rende perfetta, unica, l’alchimia che assimila il calcio alla magia, la materia al sogno, un pallone allo stupore d’un ragazzino ed alle lacrime d’un nonno. Il calcio è uno sport, naturale, uno spettacolo, ovvio, ma è anche quella componente impetuosa ed irrazionale, romanticamente detta “tifo”. Un’emozione incontrollabile che fa dell’identificazione il proprio ossigeno.
“Quando entravamo in campo sapevamo che insieme a noi scendeva tutta la città di Reggio, se non l’intera Calabria. Quello che ho provato indossando quella maglia, vivendo quell’atmosfera irripetibile, ha tracciato un solco dentro me”. Parole sfuggite ricordando il proprio passato ad uno dei più spettacolari ed amati calciatori che abbiano mai vestito la maglia amaranto: Davide Possanzini, straordinario protagonista della prima promozione in A.
In virtù di tutto questo, tornare a dare un’identità a questa società, un progetto tecnico nel quale riconoscersi a squadra e tifoseria, appare un atto dovuto al rispetto che l’AS Reggina e la Reggina Calcio meritano, pretendono. Reggio ha bisogno di qualcosa in cui tornare a credere, sposare e difendere.
Una pianificazione accattivante potrebbe esser il migliore dei principi. Frizzante, basata sulla qualità del gioco, oppure avente nella “regginità” la propria caratteristica più evidente, o ancora la gioventù, il desiderio d’affermarsi o anche l’esperienza, così come, perché no, un mix di tutto questo.
Quel che conta davvero è che esista una filosofia, un’impronta che sia ben riconoscibile e comoda da sposare per chi ama la Reggina. La città pretende “programmi” senza dare ancora, invece, ad esempio sul mercato, l’impressione di agire secondo il dogma “la Reggina compra quel che il mercato offre” preferendo un più lungimirante “la Reggina fa suo chi crede possa esser vantaggioso alla propria identità di squadra”. Ristabilire la fiducia reciproca dev’essere il primo obiettivo da rincorrere: servirà una rivoluzione, il rapporto compromesso tra gran parte degli uomini presenti in rosa ed il pubblico ne renderebbe impossibile perfino l’idea stessa, restando ancorati alle basi attuali.
Chi ha vissuto la Reggina anche prima della sua ascesa ai vertici calcistici non può aver dimenticato quell’inesauribile spirito battagliero che gli amaranto sapevano sfoggiare nei momenti difficili, quel carattere di gruppo propenso al sacrifico, quella testarda convinzione delle proprie possibilità che si consacrava in un gruppo umile e coeso, voglioso di stupire esattamente come lo era la città che esibiva così il proprio biglietto da visita. ”Questa è Reggio, questa è la Reggina” sembrava voler recitare la cartolina d’un Granillo traboccante di gente e genuina passione.
La nuova Reggina potrebbe esser ricordata per le stesse qualità, oppure altre ancora. Non importa. Non certo per l’improvvisazione. Quel sogno è ancora possibile, un ennesimo errore comporterebbe il definitivo risveglio.
Gianpiero Versace
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