“Reggio è casa nostra, questa maglia ce l’abbiamo sulla pelle. Prima voglio dare una mano per raggiungere questa impresa, poi smetto di giocare“. Così Emanuele Belardi, nella conferenza stampa che sanciva ufficialmente il suo ritorno in riva allo Stretto. Accanto a lui, un altro “figlio dei colori amaranto”, ovvero Bruno Cirillo. Un atto d’amore incondizionato, la voglia di rimettersi in gioco in un momento in cui tutto sembrava ai limiti dell’impossibile.  Più tardi, a Belardi e Cirillo si aggiungeranno Salvatore Aronica, anch’esso di ritorno, e David Di Michele, rimasto fuori rosa per qualche mese dopo una rottura con la società che sembrava insanabile. Si compone così uno zoccolo duro che mancava da tempo, la vecchia guardia che ha il compito di guidare i tanti ragazzini presenti in rosa ed evitare a Reggio Calabria l’umiliazione del calcio dilettantistico.
Quella di Belardi tuttavia, è la storia che oggi merita di essere evidenziata più di tutte. Perché se gli altri tre “senatori” potremmo ancora rivederli in campo, magari per un altro anno ancora, Emanuele ieri ha giocato davvero l’ultima partita di una carriera lunga ed importante. Lo ha fatto con la sua Reggina, con addosso una maglia che gli apparterrà per sempre. No, non è stato un percorso facile. Tutt’altro. Qualche problema fisico, gli alti e bassi in campo, le difficoltà di un club che ha lottato con le unghie e con i denti per rimanere in vita. Fino all’ultimo, fino a quando il destino mette i colori amaranto faccia a faccia con quelli giallorossi. Si va ai playout, è Reggio contro Messina, è il derby che vale tanto, che vale tutto.
30 maggio 2015, gara due. Alla fine mancano poco meno di 10 minuti, gli amaranto sono in inferiorità numerica ma stanno comunque riuscendo a neutralizzare qualsiasi attacco dei padroni di casa. Emanuele è nello stadio dove a fine gennaio fu costretto per ben 4 volte a prendere il pallone dal fondo della rete. Era la partita del suo ritorno in amaranto, un ritorno da incubo. Emanuele stavolta è sotto la curva messinese, e dall’inizio della ripresa vicino quella porta sta arrivando di tutto. Si gioca in una bolgia, essere solo calciatori non serve. Bisogna essere uomini. Mancano poco più di 10 minuti, dicevamo….Il pallone finisce sui piedi di Orlando, lo stesso che all’andata gelò il Granillo e regalò il derby al Messina. Lo stesso che era riuscito a trafiggerlo anche il 25 gennaio. L’attaccante peloritano, per la prima volta, riesce a superare la morsa della difesa avversaria: si gira e calcia in modo quasi perfetto, la storia dei playout sta per cambiare.
Un secondo, che vede 7.000 messinesi cominciare ad alzare le braccia al cielo. Un secondo, che ferma il cuore dei tifosi amaranto. Un secondo, prima che Emanuele Belardi voli alla sua destra, e tolga dalla sua porta quel pallone che sembrava scrivere la parola fine per la sua Reggina. Come al San Siro di Milano, quando un certo Andrij Shevchenko si vide respingere il calcio di rigore da un ragazzino all’esordio in A. Come all’Atleti Azzurri di Bergamo, quando quel ragazzino, adesso diventato uomo, sul punteggio di 1-1 disse di no a Davor Vugrinec, che aveva calciato da mezzo metro convinto di segnare la rete che avrebbe salvato l’Atalanta a discapito della Reggina. Come in tante altre battaglie colorate d’amaranto…
 Una parata capolavoro, il prologo al gol di Balistreri ed alla festa finale. Si, era giusto che finisse così. Era giusto che Emanuele Belardi, reggino d’adozione, finisse la carriera esultando con i suoi compagni, sotto i suoi tifosi,  con quella maglia addosso. Dopo aver regalato un intervento che vale quanto un gol. Un volo, un altro volo, l’ultimo. Nessuno dimenticherà mai quella parata, ma soprattutto, nessuno dimenticherà mai quell’atto d’amore compiuto a gennaio, quando una squadra che pareva derelitta si trovava all’ultimo posto, dopo  7 sconfitte di fila. GRAZIE INFINITE PORTIERONE.
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