Legge antidoping in Italia: cosa dispone in concreto la 376/2000?
Gli artt. 1 e 2 della legge 376/2000, come abbiamo visto, si occupano prevalentemente di esprimere i principi-perno attorno ai quali ruota la legge, ovvero: tutela della salute dell’atleta e tutela della lealtà e correttezza dell’attività sportiva (c.d.“fair play”).
Analizziamo adesso più da vicino gli articoli successivi, i quali affrontano il concetto di doping nell’ottica dell’applicazione concreta della disciplina legislativa e dei controlli:
L’art. 3 prevede l’istituzione presso il Ministero della Sanità di una Commissione per la Vigilanza e il controllo sul doping, alla quale sono attribuiti numerosi incarichi e che risponde, nell’ottica del legislatore, all’esigenza di assicurare in materia una garanzia di neutralità e imparzialità e di porre fine al sistema precedente che vedeva il Coni vero e proprio dominus delle operazioni di controllo.
La commissione, che è composta di 20 membri la cui nomina è destinata al Ministero della Salute di concerto con quello dei Beni e delle Attività Culturali, è depositaria di numerosi e rilevanti compiti: in primis predisporre e rivedere periodicamente le classi di farmaci e di pratiche mediche vietate ed effettuare i controlli antidoping mediante i laboratori accreditati. In secondo luogo è destinataria di misure preventive ad esempio programmi di ricerca sulle sostanze e le pratiche”dopanti”, promozione di forme di collaborazione con i servizi sanitari locali e consolidamento dei rapporti operativi con l’Unione Europea e gli organismi internazionali, oltre che diffusione dell’informazione in materia.
L’art. 4 si occupa invece dei controlli, affidando alla Commissione il compito di devolverne l’effettuazione e tutte le pratiche e i protocolli scientifici connessi ai laboratori accreditati.
L’art. 5 invece disciplina le competenze delle regioni: il legislatore devolve alle regioni la programmazione delle attività di prevenzione e tutela della salute e delle attività sportive, l’individuazione dei servizi competenti attraverso dipartimenti di prevenzione e coordinamento delle attività e dei laboratori antidoping. Tale scelta di accentrare queste competenze in mano alle regioni è giustificata, a parere del legislatore, dall’esigenza legislativa di attivare e sviluppare una rete di controlli antidoping e realizzare sul territorio regionale un’indagine conoscitiva e un monitoraggio continuo del fenomeno.
Gli art. 6 e 7 affrontano invece il profilo organizzativo di riferimento rispetto a quello programmatico già esposto: l’art. 6 al co. 1 fa obbligo agli organismi sportivi di adeguare i propri regolamenti alle disposizioni dettate dalla legge, prevedendo sanzioni disciplinari nei confronti dei tesserati in caso di doping o di rifiuto a sottoporsi ai controlli; il 2 comma invece concede un certo grado di autonomia alle federazioni sportive nazionali permettendo loro di introdurre sanzioni a carico dei propri tesserati in caso di doping, anche nei riguardi di farmaci e sostanze non previste nelle classi dell’art. 1 ma comunque ritenute “dopanti” dall’ordinamento internazionale vigente. Sempre l’art. 6 ma al 4 co. obbliga i tesserati a dichiarare in modo esplicito la propria conoscenza e accettazione delle norme contenute nei regolamenti in materia di doping e di controlli antidoping e da ultimo al co. 5 pone a carico del Coni, delle federazioni sportive nazionali e degli enti di promozione sportiva, la cura dell’informazione e dell’aggiornamento dei dirigenti, dei tecnici, degli atleti e degli operatori sanitari in ordine alle problematiche concernenti il doping.
L’art. 7 ha prescritto una norma molto importante il cui esito è “sotto gli occhi “ di tutti, è infatti in seguito alla legge del 2000 che sono stati inseriti sulle confezioni delle sostanze “dopanti” appositi loghi, oltre all’indicazione dei contenuti e alle specifiche informazioni circa le precauzioni da seguire per coloro che svolgono attività sportiva. La concreta operatività di tale previsione è discussa in dottrina la quale non ha mancato di rilevare che sussiste uno scarto tra denominazione farmacologia e denominazione commerciale delle sostanze medicinali, con la conseguenza che risulta difficile per le case farmaceutiche qualificare un proprio prodotto come “doping”.
Ivana Veneziano
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